Introduzione al volume
Maria Luisa Pastorelli
di Elena Pontiggia
Sono rimasti in pochi, i testimoni di quel tempo drammatico e felice, doloroso e carico di speranze: il tempo dell’immediato dopoguerra, in cui all’Accademia di Brera si lavorava ancora, come nei decenni precedenti, al modo di una bottega antica.
Erano i tempi, intendiamo dire, in cui Brera assomigliava ancora a una sorta di grande atelier: una larga parte dei suoi iscritti, che non arrivavano a duecento, non erano studenti generici, ma futuri artisti, o almeno persone dotate di talento espressivo e creativo.
Chi li ha vissuti, quei tempi, li ripensa e ne parla con nostalgia, ma senza retorica, senza enfasi, anzi con sobrio realismo: pensiamo al bel libro di Gianna Montesi, Fiori chiari, fiori oscuri (Consonni Editore, Milano 1991). E in effetti sono tempi che sembrano molto più lontani da noi dei sessant’anni che sono trascorsi, tanto sono cambiati il sistema dell’arte, e la vita stessa delle accademie.
Maria Luisa Pastorelli è stata una testimone di quell’epoca. È stata una testimone doppiamente preziosa: perché ha iniziato a frequentare Brera proprio nel 1946, e perché è una donna, dunque ha sperimentato su di sé tutte le riserve, i sospetti, le difficoltà che gravavano, ancora in quel periodo, sulle artiste.
In una fotografia di quegli anni, in cui Maria Luisa è ritratta accanto a Carrà, suo insegnante di pittura, davanti a un quadro già maturo per composizione e colore (La mulatta, 1948), la didascalia riporta le parole precise del maestro: le donne non sono adatte all’arte perché non sanno sopportare le privazioni e i sacrifici che l’arte richiede, per esempio la fame.
Dunque, una condanna definitiva, ontologica, metafisica: non questa o quella donna, ma tutto il genere femminile è escluso dal regno del- l’espressione pittorica e plastica.
Carrà non era l’unico a pensarla così. Sironi, ci raccontava Graziella Sarno che fu sua allieva, aveva una profonda stima per lei, ma quasi come se fosse un’eccezione nell’intero mondo femminile. Una volta andarono a trovarlo alcune giovani che frequentavano Brera (proprio negli anni in cui la Pastorelli studiava anche lei nelle aule braidensi, e avrebbe potuto essere del gruppo) e l’artista trovò modo di dissuaderle.
La pittura, spiegava Sironi, è un’arte difficile, impegnativa, e invece la vita per voi può essere così bella! Pensate all’amore, alla vostra bellezza, dunque, e lasciate perdere tele e pennelli…
Anche la critica, se si prescinde da qualche eccezione, non prendeva molto sul serio le donne artiste. Se esponevano in qualche mostra ne commentava in blocco la presenza, quasi che l’esser donna fosse una tendenza espressiva a sé, e parlava paternalisticamente di sensibilità, grazia, piacevolezza.
Solo pochi anni prima, alla Quadriennale di Roma del 1935, il critico Francesco Callari scriveva: “Noi siamo stati sempre nemici del dilettantismo ed il più delle donne in ogni loro manifestazione – tranne che in amore – presentano questo carattere, pur facendolo con grazia”. E un altro critico, solitamente sensibile e acuto, come Piero Torriano, facendo un unico fascio di tutte le presenze femminili alla Quadriennale, osservava: “E si va per una via dilettevole, fiorita d’eleganze e di vezzi e d’impressioncine superficiali, in fondo a cui già s’intravede una maniera che sta fra l’Arcadia e la pasticceria”.
Le cose non erano molto cambiate quando Maria Luisa Pastorelli si affaccia sulla scena artistica. E questo aspetto, per così dire sociologico, non va dimenticato: anzi, va messo in primo piano, sia in generale che nel caso specifico della nostra artista, anche per spiegare come mai, dopo un avvio significativo, la sua ricerca si è, non diciamo interrotta (perché prosegue tutta la vita, tra insegnamento, partecipazione a premi e concreta attività al cavalletto), ma si è tenuta lontana dalla via maestra dell’arte, del mercato, delle gallerie, scegliendo una posizione appartata.
Del resto, se possiamo riferire un aneddoto personale, quando pensiamo alle artiste della generazione di Maria Luisa ci vengono sempre in mente le parole della decana delle pittrici italiane, Felicita Frai, classe 1909. Da noi intervistata sulla presenza femminile nell’arte della prima metà del secolo, esclamava: “E soprattutto dica che ci voleva coraggio, tanto coraggio! Ci voleva coraggio per una donna che intendesse dedicarsi alla pittura. Perché nessuno ti prendeva sul serio”.
Ma torniamo alla Brera dell’epoca. Quando Maria Luisa Pastorelli si iscrive, o meglio tenta di iscriversi (vedremo meglio le sue vicissitudini) all’Accademia milanese, ha ventun anni. Era nata a Genova nel 1925 e aveva compiuto studi tecnici, dunque non aveva nessun rudimento scolastico della pittura.
Aveva solo una grande, ostinata passione, che aveva espresso, dipingendo da sola, da autodidatta, fin dagli anni dell’adolescenza. Rimane di questo periodo un Omaggio a Tranquillo Cremona), eseguito quando aveva sedici anni, che riprende un’opera del maestro della Scapigliatura, ma la reinterpreta dando il massimo risalto alla libertà del colore.
Di passione, comunque, ne doveva aver tanta Maria Luisa, per superare la diffidenza dei genitori di fronte alla sua scelta che, nei tempi difficili del dopoguerra, comportava anche un sacrificio economico che non si sapeva se e come sarebbe stato ripagato.
Il padre di Maria Luisa, il capitano Gino Pastorelli, che durante la guerra aveva subito una lunga prigionia in Kenia, era tornato da poco a casa, malato e debilitato dalla detenzione. Non era però lui il più aspro avversario della scelta braidense. Gino Pastorelli, infatti, veniva da una famiglia sensibile all’arte e alla letteratura. Lui stesso era un letterato, appassionato di libri antichi. Una sua parente, poi, sorella di sua madre, era stata direttrice, a Venezia, dell’Istituto Melville, dove si insegnava ricamo e decorazione, ed era stata a sua volta una pittrice non banale (un suo ritratto femminile di buona fattura è conservato ancora dagli eredi.
Era piuttosto la madre di Maria Luisa a guardare con scetticismo, se non con ostilità, la decisione della figlia, per la quale si augurava (è facile immaginarlo) un ciclo di studi dagli sbocchi più prevedibili e concreti. Non ci fu comunque nulla da fare, contro la determinazione di Maria Luisa. La ragazza superò le resistenze familiari, e superò anche quelle, ben più insidiose, di Aldo Carpi, da poco nominato direttore dell’Accademia in sostituzione di Messina. Carpi, infatti, non voleva ammettere a Brera, in un momento in cui i posti erano limitati, una nuova allieva, per di più donna e senza studi specifici alle spalle. Si convinse solo davanti al pianto dirotto di Maria Luisa: un pianto, possiamo immaginare, di cui comprese le motivazioni profonde. Non un capriccio o un’attestazione di fragilità emotiva erano quelle lacrime (“C’è gente che piange, per entrare a Brera!” dirà più tardi, tra l’ironico e il compiaciuto, Carpi stesso), ma il segno di una passione autentica e di una disperazione effettiva della giovane donna all’idea di non poter seguire la propria vocazione.
Carpi, dunque, accolse la nuova allieva, ma solo come uditrice, e rac- comandandole di non dire il suo nome e di frequentare solo a giorni alter- ni: cosa che Maria Luisa fece solo i primi tempi, perché ben presto iniziò a seguire le lezioni tutti i giorni. E bisogna dire che il più contento fu proprio Carpi, che anzi, quando la giovane passò ai corsi di Carrà, manifestò il suo rimpianto per aver perso una così promettente allieva.
Chi erano i docenti di Brera, in quel periodo, al di là appunto di Carpi, che oltre ad assumere i compiti di direzione dell’Accademia, insegnava pittura? (“Era un uomo profondamente buono – ricorda Pastorelli – e colpiva proprio per la sua carica di umanità”).
In primo luogo c’era Carrà, col quale Maria Luisa conclude i suoi studi. Anzi, nell’opera Susanna qui riprodotta ci rimane la traccia di un suo intervento: il segno forte e sintetico della capigliatura della modella, che il maestro aveva disegnato lui stesso. “Era una cosa più unica che rara – ricorda ancora la Pastorelli – che Carrà intervenisse. Di solito non lo faceva mai. Il suo insegnamento si svolgeva parlando: ragionava insieme all’allievo, su cosa correggere e cosa migliorare, individuando cosa non funzionava in una composizione. Fu solo quella volta che volle intervenire direttamente”. Forse, aggiungiamo noi, ma è solo un’ipotesi, perché il lavoro lo ispirò, e vide in esso non la solita esercitazione scolastica, ma un esito ancora suscettibile di miglioramento eppure non di routine.
Carrà divideva l’aula con Funi, che insegnava decorazione. A Maria Luisa, però, non interessava l’affresco, e con la sua sensibilità realista si sentiva più vicina a Carpi, perché in Funi avvertiva una dimensione neoclassica che non le era congeniale.
C’erano poi gli assistenti: Italo Valenti, che collaborava con Carpi, e che, come vedremo, lascia forse la maggior traccia nella pittura della Pastorelli, soprattutto nella definizione di una figura esile, delicata, eppure plasticamente modellata.
E, ancora, Maria Luisa ricorda con affetto Vittorini e Aldo Salvadori. Quest’ultimo, accennando all’uso del conté che la Pastorelli prediligeva (“Il carboncino per me era troppo morbido” ricorda lei stessa), e che in un certo periodo si era diffuso più del solito tra gli allievi di disegno, ebbe a dire una volta: “A Brera è scoppiata la pastorellite!”.
Modella a Brera – 1946 contè su carta
L’artista – 1947 contè su carta
1
Busto – 1947 contè su carta
15
La suora – 1947 contè su carta
16
Teresa – 1947 contè su carta
17
Il vaso di anemoni – 1947 contè su carta
18
Nudo – 1948 contè su carta
19
Il gioco delle carte – 1948 contè su carta
20
La ragazza del mandolino – 1948 contè su carta
21
La bambina dell’ombrello – 1948 contè su carta
22
Simona – 1948 contè su carta
23
Il vaso di anemoni – 1948 contè su carta
24
Zia Iride – 1948 contè su carta
25
La donna che scrive – 1949 contè su carta
26
I ragazzi con l’armonica e il mandolino – 1949 contè su carta
27
La donna con il foulard – 1949 contè su carta
28
La donna dalla gonna nera – 1949 contè su carta
29
Annalisa – 1949 contè su carta
30
Nudo – 1949 contè su carta
31
Volto di donna – 1950 contè su carta
32
La donna del salvadanaio – 1950 contè su carta
33
A insegnare storia dell’arte, poi, c’era Eva Tea, figura rimasta mitica di quegli anni (e ben più valida, come studiosa, di quanto sia stato detto). Tra i compagni di studi c’erano invece Chighine e Sangregorio, Francese e Dobrzansky, Dova e Ajmone, Crippa e Peverelli, Cremonini, Baj e Alik Cavaliere, i fotografi Ugo Mulas e Alfa Castaldi, il regista Damiano Damiani, Dario Fo, il futuro creatore della scuola di Barbiana
don Lorenzo Milani…
Maria Luisa ricorda in particolare Crippa e Dova, Cremonini e Dario Fo. Dova fu anche suo compagno di liceo, e con lui strinse una lunga amicizia. Con Crippa, invece, il rapporto fu più conflittuale: all’inizio, anzi, sorsero violenti diverbi, e veri e propri scontri. Poi i due impararono a capirsi, e i motivi di polemica si sciolsero in un reciproco sentimento di stima.
Quanto a Fo, la Pastorelli ricorda bene la sua vocazione teatrale, già allora così evidente, e le macchiette, le scenette, le gag che sapeva improvvisare nelle aule.
A quei tempi, comunque, gli allievi si conoscevano un po’ tutti, e non c’era grande differenza fra le diverse annate, i diversi corsi o i diversi indirizzi. Come ricorda Alik Cavaliere: “L’Accademia di Brera è stata, negli anni nei quali l’ho frequentata, un grande studio collettivo”.
Era, appunto, un laboratorio di apprendisti, in cui il mestiere era coltivato, insegnato e studiato con cura. Non erano lontani, del resto, gli anni del ‘Ritorno all’ordine’ in cui si era predicata l’importanza della tecnica, il valore della conoscenza e della padronanza dei mezzi espressivi. Certo, il clima ora era ben diverso, ma il rispetto per il disegno, per l’anatomia tradizionalmente intesa, per lo studio della modella e del corpo umano, per la teoria delle ombre, per l’armonia della composizione erano ancora valori condivisi anche da chi si sentiva vicino alle avanguardie, e teneva nel portafoglio la foto di Guernica di Picasso.
Mestiere, poi, significava anche dialogo con i maestri antichi, così come guardare al passato significava ritrovare la propria tradizione, ricostruirsi una genealogia nazionale e insieme una privata geografia d’affetti. Per la Pastorelli, in particolare, gli amori artistici si appuntano soprattutto su Piero della Francesca, Giotto, Cézanne. Sono amori che la accompagneranno tutta la vita, insegnandole un’attenzione per la tridimensionalità della forma che non abbandonerà mai, pur lasciando spazio anche all’intelligenza del colore.
L’impegno scolastico, però, conosceva anche momenti di pausa, che spesso coincidevano con la mensa presso le sorelle Pirovini, o presso la Sciora Titta: istituzioni entrambe benemerite per la generosità con cui sorvolavano sulla non eccessiva sincerità di alcuni giovani artisti: i quali, con la loro fame arretrata e la voracità della giovinezza, divoravano diversi piatti, ma, giunti alla cassa, erano presi da un’improvvisa amnesia, e dichiaravano a stento di aver consumato una minestra…
Ma entriamo ora nelle aule di Brera: aule che Maria Luisa amava profondamente, al punto che, quando le proposero di ‘saltare’ un anno, per la maturità espressiva che dimostrava e le competenze che aveva già acquisito, rifiutò. “Avevo fatto tanta fatica per entrare che volevo godermi ogni minuto di studi, e non mi sorrideva affatto l’idea di abbreviarli” ricorda lei stessa. Fortunatamente la Pastorelli ha conservato molto di quel periodo.
Tra le sue carte vediamo dunque una Modella a Brera adagiata sul divano, in uno dei momenti di pausa del suo faticoso lavoro; un’allieva seduta al suo tavolo, davanti a un disegno appeso al muro (L’artista); un Busto copiato con attenzione; alcuni Nudi ripresi in piedi o in altre pose, affidati alla sintesi delle linee e al contrasto fra luce e ombra.
Non sono però solo la modella e le ‘accademie’, come vengono significativamente chiamati i saggi di copia dal vero, a interessare la giovane Maria Luisa. I soggetti che disegna in questi anni sono numerosi, a testimonianza di un’attività incessante, che non si esaurisce nelle aule di Brera. La ragazza del mandolino; la Zia Iride già avanti con gli anni, curva sul rammendo o sulla maglia; un gruppo di bambini che giocano a carte o si ingegnano a strimpellare l’armonica e il mandolino, sono tutti soggetti presi dalla vita quotidiana, a cui la giovane artista guarda con partecipe attenzione.
È soprattutto il mondo femminile e il mondo dell’infanzia ad attirarla (e non a caso negli anni successivi dedicherà ai bambini le sue migliori energie, avviandoli alla conoscenza dell’arte e coltivando in loro una vocazione espressiva). In tutte queste immagini (La donna con il foulard, La suora, La donna dalla gonna nera, La donna che scrive, Teresa, si avverte un con- trasto fra la morbidezza del chiaroscuro, che si rapprende in soffici nidi d’ombra o in vellutate tonalità, e la sintesi che geometrizza la figura e la semplifica, per meglio assecondare i ritmi della composizione.
C’è anche una sottile ricerca psicologica in alcuni lavori, soprattutto quelli che hanno per tema i bambini. Ecco La bambina dell’ombrello, ancora vestita, appunto, da bambina, con i calzettoni e le scarpe basse, ma già sfiorata da una sottile civetteria nel tenere l’ombrellino e la borsetta già da donna adulta. Simona invece, sembra un po’ intimidita nella posa: rigida, come se non osasse muoversi, non sappiamo se più inorgoglita o impacciata dal compito di modella che le è stato affidato, è ritratta di fianco a un mazzo di fiori (che hanno, evidentemente, una funzione simbolica e alludono appunto alla freschezza e alla vulnerabilità dell’infanzia).
In queste opere ritroviamo, come accennavamo prima, qualcosa della figurazione di Valenti, e in particolare della sua stagione pittorica successiva al periodo di “Corrente”. In questi anni, infatti, il pittore veneto dà vita a una famiglia di figure esili, ribadite nei contorni e lievemente geo- metrizzate o stilizzate, di cui si avverte qualche eco anche in Maria Luisa. Anche qui la figura è incerta, fragile, eppure pervasa di una forza interiore che contrasta con la gracilità dei lineamenti.
La Pastorelli, peraltro, non si limita al disegno, che pure coltiva con assiduo esercizio. Ecco, sempre di questi anni, prove in cui il colore è il protagonista della composizione. Ecco i vasi di fiori, soprattutto i prediletti anemoni, che si prestano felicemente a comporre un mosaico colorato. (Il vaso con la mimosa, Gli anemoni e il piatto di frutta, Gli anemoni.
Ecco, inoltre, le nature morte, serrate in un perimetro alla Cézanne, ma cariche di timbri festosi, che sembrano voler esplodere in una sinfonia di rossi, di gialli, di arancioni.
Ecco, ancora, Anna in cui il contorno di figure e cose, condotto direttamente col colore, rivela qualche cognizione di Matisse.
Matissiano è anche il volto di Monica dipinto come una tarsia, scandito in piccole forme-colore accostate.
Con il doloroso Volto di donna e La donna del salvadanaio, Luisa, Susanna e le loro compagne compongono un piccolo gineceo silenzioso: una famiglia di figure che l’artista osserva con affetto, nella loro malinconia e nelle loro piccole gioie.
E siamo alla fine degli anni Quaranta, quando Maria Luisa termina gli studi a Brera, diplomandosi nel 1949. Data a questo periodo la partecipa- zione al Premio Diomira, in occasione del quale un suo disegno entra nella prestigiosa Raccolta Bertarelli, conservata al Castello Sforzesco di Milano.
E data agli anni appena successivi l’attenzione critica di Raffaellino De Grada, che in una sua trasmissione culturale radiofonica, allora seguitissima, cita Il solaio rosso con parole lusinghiere.
A questo punto, comunque, per Maria Luisa la vita familiare ha il sopravvento, e con essa gli impegni e le rinunce radicali che allora comportava. La Pastorelli non smette però di dipingere, pur rallentando inevitabilmente il ritmo del suo impegno, anche perché si dedica all’insegna- mento e, come abbiamo detto, all’espressività e alla creatività infantile.
È un’attività, quest’ultima, carica di soddisfazione, per cui riceve numerosi premi, anche se il premio più bello, per lei, è la riconoscenza dei suoi antichi alunni. “Ancora oggi incontro uomini e donne che sono stati miei allievi, che si ricordano ancora di me, dopo tanto tempo, e mi ringraziano per la passione che ho instillato in loro, per l’amore dell’arte che ho cercato di trasmettere” confessa lei stessa.
Sono degli anni Sessanta esiti contraddistinti da una vivace libertà cromatica, in cui soprattutto i paesaggi, visti spesso dall’alto, diventano quasi un arazzo colorato. La vibrazione del pennello produce una punteggiatura che tramuta il motivo naturalistico in motivo lirico, e dà immediato sfogo allo squillare dei rossi, al crepitare dei verdi, all’improvviso scintillare dei gialli.
Tuttavia, fedele alla lezione di Carrà che aveva appreso nella giovinezza, la Pastorelli non tralascia la sintassi della composizione e, pur impostando la sua pittura sul colore, non dimentica il valore della costruzione della forma e l’architettura del disegno.
Il percorso di Maria Luisa Pastorelli, possiamo dire in conclusione, è dunque la privilegiata testimonianza di un’esperienza forse irripetibile, come quella della Brera dei Carpi, dei Funi, dei Carrà, nell’Italia sconfitta eppure propositiva dell’immediato dopoguerra.
La sua pittura, in effetti, è la storia di quell’alunnato: una storia vissuta sempre con modestia, in modo appartato, senza alcuna ambizione o velleità di successi materiali, ma con altrettanta autenticità. E con una passione che non si è mai spenta.